Siamo più intelligenti che mai, o comunque questa è l’impressione leggendo i giornali e guardando la televisione.
La parola “smart” è stata associata, con crescente insistenza, a qualsiasi attributo delle nostre vite: smart home, smart living, smart learning etc etc.
Ma è soprattutto nel mondo del lavoro che sta dando il meglio di sé, facendo nascere infiniti e a volte fantasiosi neologismi: lavorare smart è il nuovo credo del nostro mondo, specialmente post-pandemia.
Dal concetto di smart working sono quindi rapidamente emersi vari pseudo-anglicismi spesso usati impropriamente. Dal remote working alle workation, fino all’occasionale south working, infinite varianti che sembrano non avere limite se non quello della fantasia.
A volte sembra quasi che esista un “generatore automatico di nomi smart-related” simile al generatore nomi aziendali di Shopify.
Il risultato? Mi pare che sia più confusione che utilità. Sono spesso usati per il marketing, titoli adatti ad essere spiattellati sulle pagine dei giornali senza approfondimenti, una tendenza sempre più evidente soprattutto per chi, come me, ha basato il proprio percorso umano e lavorativo su queste differenze reali.
In un recente articolo infatti ho parlato di quella che è la vera essenza del nomadismo digitale, un movimento internazionale nel quale mi riconosco e che è forse l’esempio migliore, quando si parla di temi a cui i media hanno dato interpretazioni confusionarie.
In questo articolo vorrei fare un passo ulteriore nella direzione della chiarezza, e allargare lo sguardo a quelli che sono i “concetti satellite” che girano intorno alla nostra ritrovata libertà.
Concetti che abbiamo variamente definito smart, ma che in realtà sono tutti sinonimi della stessa cosa: che siamo davanti ad un cambiamento epocale non solo del nostro modo di lavorare (smart, sicuramente), ma di vivere.
Viaggio tra i neologismi del lavorare “smart”
Mai come quest’anno, grazie alla spinta brusca data dalla pandemia che ci ha bloccato tutti nelle nostre case, abbiamo fatto nostri termini nuovi legati al lavoro da remoto.
Sono spuntati come margherite a primavera, alcuni nuovi (south working), altri ancora riutilizzati con nuovi scopi (workation), tutti accomunati da una cosa: non ne esiste una definizione!
Dare definizioni non è facile in effetti, perché implica identificare chiaramente un concetto in tutte le sue variabili in poche righe, e non me la sento certo di fare qualcosa di così arduo. Però vorrei provare a tracciare dei confini, mettendo in evidenza similitudini e differenze, perché è solo così che si può riuscire a capire il sostrato comune che identifica tutti questi termini.
Lavoro da remoto (remote work)
Iniziamo dalla base, perché il lavoro da remoto è stato il vero grande vincitore di questa pandemia. O forse no, come vedremo tra poco.
Il remote work è una modalità innovativa di lavorare che prevede di digitalizzare le attività che si svolgono normalmente in presenza, quali riunioni e simili, e di svolgere la propria mansione in un luogo che non è necessariamente un ufficio.
In sé non ha ulteriori specifiche: “da remoto” significa semplicemente “non in presenza”. Ciò vuol dire che il lavoratore da remoto può teoricamente scegliere dove svolgere la propria attività, sia essa casa propria, un co-working, un altro Paese, etc.
In questo senso quello che abbiamo fatto durante il periodo di lockdown non è certo l’esempio migliore: il lavoro da casa è solo una delle possibilità che offre il remote work, e questo tra l’altro richiederebbe preparazione, competenze e abilità specifiche per portare i benefici che può offrire.
I risultati del lavoro da remoto così inteso, come lo abbiamo fatto finora, sono stati sia ottimi che deleteri: da una parte la produttività non ne ha risentito, anzi si è generalmente alzata. Dall’altra abbiamo ora un esercito di persone che soffre di mal di schiena, che si sente isolato e che lavora oltre orario perché non ha, appunto, potuto lavorare da remoto correttamente.
Lavoro da remoto non è nemmeno sinonimo di nomadismo digitale: il primo è un modo di lavorare, il secondo è uno stile di vita, un movimento. Una scelta basata sulla libertà, che sfrutta tendenzialmente il lavoro da remoto per essere possibile.
Smart working o lavoro agile
È cominciato tutto con lo smart working: un concetto di cui si parlava già da anni, che è stato interpretato più che variamente dalle aziende. Qualcuna l’ha attuato con uno o più giorni a settimana da casa, altri con un’aumentata flessibilità, pochi per quello che dovrebbe essere.
D’altronde il termine, anche in italiano, non si presta alla chiarezza: lavoro agile significa veramente tutto e niente.
Nel periodo di pandemia è stato esteso anche ad indicare il visto sopra “lavoro in quarantena”, creando ancora più confusione.
Nell’ordinamento italiano viene definito come «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa».
Con parole quali “anche” e “possibile utilizzo” si entra nel campo dell’interpretazione, però come si vede generalmente il lavoro agile dovrebbe includere un cambiamento nella modalità di valutazione del lavoro (per obiettivi), e l’assenza di vincoli di orario e luogo.
La definizione inglese di smart working conferma e amplia quella italiana:
«Lo Smart Working è un approccio all'organizzazione del lavoro che mira ad aumentare l'efficienza e l'efficacia, migliorando i risultati personali e organizzativi attraverso una combinazione di flessibilità, autonomia e collaborazione, utilizzando una serie di pratiche, tecnologie e ambienti di lavoro».
Il lavoro smart quindi dovrebbe essere il lavoro aziendale non solo svolto da remoto, ma accompagnato da cambiamenti strutturali nella gestione delle risorse umane, degli ambienti di lavoro e degli obiettivi, basato sulla fiducia e quindi sull’autonomia decisionale delle persone.
In pochi casi, mi rendo conto, le aziende italiane lo hanno interpretato in questo modo, ma secondo la definizione (e in teoria, la legge) questo dovrebbe essere.
South working
Qui entriamo nel regno dei neologismi nati in seno alla pandemia, spesso (come in questo caso) con uno scopo bellissimo che poi non è stato adeguatamente comunicato dai giornali.
Il “south working” è un progetto sociale molto interessante ideato da alcuni giovani professionisti emigrati per lavoro, perlopiù provenienti dalle regioni del sud Italia. Durante il Covid, hanno visto un’opportunità nella ritrovata libertà delle persone, per poter finalmente tornare a vivere e lavorare anche dai luoghi che avevano dovuto quasi forzatamente abbandonare, e da qui hanno creato un movimento.
South working è il nome che è stato dato quindi a questa possibilità: lavorare smart per un’azienda “del nord” (inteso non come nord geografico italiano ma in generale come luogo in cui sia più facile trovare lavori ben retribuiti) e vivendo “al sud”, dove il costo della vita è minore e la qualità è generalmente maggiore.
È un concetto che ha avuto ampia risonanza sui media, ma che è stato esasperato in ottica stagionale visto che l’estate era in arrivo. Spesso sui media ha anche perso il collegamento con il progetto originario, ed è stato esteso a ulteriore “nuovo modo di lavorare”. In realtà non definisce un concetto nuovo, semplicemente una delle possibilità già viste sopra: con uno smart working vero, basato su flessibilità e fiducia, è possibile lavorare da remoto, ovvero scegliendo liberamente il proprio ufficio.
Questo può essere al sud, al nord, al mare, in montagna, a casa dei genitori, da un bar, o dove più ci aggradi e rispecchi le nostre ambizioni.
Workation
Questo è invece un termine non nuovissimo, che è stato però rivisitato alla luce del periodo Covid e variamente interpretato.
Workation è un termine inglese, che nasce dalla fusione di work (lavoro) e vacation (vacanza), per definire la possibilità di continuare a lavorare stando in un luogo tipicamente di vacanza.
Fa sorridere che sia stato chiamato dai giornali “il neologismo dell’estate 2020 segnata dal Covid”, mentre io ho partecipato alla mia prima workation nel 2019. Addirittura, il network Nomadidigitali.it ha organizzato la prima workation professionale nel 2017, finanziata dalla Comunità Europea!
Come spiegava il fondatore Alberto Mattei in quell’anno, tra le fila dei nomadi digitali quello delle workation era già allora “un trend in forte crescita. Pacchetti che normalmente includono un alloggio, uno spazio di lavoro condiviso, attività varie e soprattutto un’esperienza di viaggio, di vacanza e di socializzazione”.
Tra i vantaggi, “la possibilità di viaggiare senza doversi organizzare più di tanto, trovare condizioni idonee e connessioni affidabili per continuare a lavorare ma in modo più rilassato, stringere nuovi legami, dialogare e confrontarsi faccia a faccia con altri professionisti, in contesti diversi rispetto a quelli dei tradizionali spazi di lavoro”.
E nel 2020, invece, questa nuova workation cos’è stata?
Semplicemente una visione un po’ stacanovista del lavoratore che, non potendo viaggiare o essendo in ristrettezze economiche, “sacrifica” le proprie vacanze dedicandole anche al lavoro.
Un principio completamente diverso da quello che invece ha guidato le workation che ho conosciuto io, vere e proprie esperienze di formazione e crescita reciproca.
Se vogliamo, anzi, alla luce di quanto detto finora, la workation intesa in questo modo di moda nel 2020 non è altro che...di nuovo, il lavoro da remoto! Se posso lavorare ovunque, perché non vivere (e lavorare) dove mi sento in vacanza?
Come è abbastanza chiaro, quindi, non appena si va a cercare di definire meglio tutti questi termini ci si accorge di una cosa: hanno nomi diversi, i giornali li annunciano con titoli blasonati come neologismi della nuova era post-Covid, ma in realtà non sono altro che manifestazioni di un cambiamento.
Un passaggio radicale nel mondo del lavoro e nel modo di vivere e di lavorare di milioni di persone che, in tutto il mondo, desiderano maggiore flessibilità, e vogliono tornare a sentirsi più libere e più realizzate.
Lavorare ovunque: la vera essenza di tutti questi concetti
Un principio di cui ho appunto parlato nel mio precedente articolo, quello che guida i nomadi digitali in tutto il mondo da ben prima della pandemia: quello della libertà.
Siamo pronti ad un cambio epocale, un cambiamento che ha covato sotto la cenere per anni, decenni addirittura, e che vedrà il mondo del lavoro completamente stravolto.
Ci vorrà ancora molto tempo perché si veda il compimento di questo percorso presumibilmente, ma la strada è tracciata.
Il mondo sta cambiando: lo vediamo dalle innumerevoli aziende che hanno scelto il lavoro da remoto come modalità principale (un numero diventato esponenziale nell’ultimo anno), dai sempre più numerosi visti per nomadi digitali che le varie destinazioni nel mondo si stanno affrettando a lanciare, e in generale da questo fermento mediatico e comunicativo che fa nascere di continuo “neologismi” come quelli visti sopra.
Ma perché sta avvenendo ciò, e perché ora?
La pandemia ha certamente accelerato i tempi e ci ha mostrato in tutta la sua grandiosità questo tsunami in arrivo, ma la verità è che questo cambiamento si preparava da tempo.
Il nostro modo di lavorare, se ci pensiamo, è cambiato pochissimo negli ultimi decenni: uffici molto simili a quelli in cui lavoravano i nostri genitori, una distinzione della settimana e dell’anno in “lavoro” e “altro” molto netta, la visione del proprio impiego come di qualcosa che si deve fare, non di qualcosa che si ama e si fa volentieri.
Questo è stranamente anacronistico se invece consideriamo come è cambiato il lavoro in sé, e la tecnologia in particolare: abbiamo nel palmo della mano dispositivi potenti quanto lo erano una volta gli ingombranti computer fissi, internet e il Cloud hanno permesso di portare tutto online, gli strumenti per la comunicazione interpersonale ci permettono di essere vicini anche quando siamo a chilometri di distanza.
Questi due mondi hanno viaggiato su binari paralleli per molto tempo, l’uno crescendo a velocità esponenziale, l’altro restando generalmente statico, e questo ha creato una sorta di vistosa asincronia nel nostro modo di vivere.
Da una parte sempre connessi, sempre al lavoro anche quando non vorremmo. Dall’altra, forzati in schemi non più necessari, a far convivere due aspetti della vita apparentemente inconciliabili. Vita O lavoro.
Ora la pandemia, pur con tutto il negativo e le difficoltà del momento che, lo ripeto, non permettono di godere appieno dei benefici del lavoro da remoto, ci ha mostrato un’alternativa.
Una fatta di vita E lavoro, di attività sportiva durante la giornata, di famiglia che si integra nella vita d’ufficio, di tempo libero da gestire e non da richiedere.
Da sempre in un certo senso i nomadi digitali hanno fatto questa scelta: quella di non scendere a compromessi, ma di integrare i diversi aspetti della propria esistenza.
Il viaggio non come vacanza, ma come modo di esplorare nuove culture, di farsi suggestionare dal diverso, di scegliere il luogo che più ti rende felice e produttivo. Il lavoro non come costrizione da cui scappare appena possibile, ma come parte integrante della vita. Gli strumenti per farlo da remoto non come isolamento, ma come opportunità per allargare la propria rete di relazioni ben al di là dei confini geografici di un ufficio.
Conclusioni: il lavoro veramente smart non ha bisogno di neologismi
Siamo quindi arrivati a questo giro di boa, un po’ per colpa di (o grazie a) questa pandemia. Un po’ i tempi erano semplicemente maturi perché, nel nostro modo di lavorare, smart non fosse solo un titolo di marketing.
L’emergere di tutti questi neologismi non è altro che la necessità di un mondo mediatico che non è ancora preparato al cambiamento in atto. E se presi con il giusto senso critico, non sono una cosa negativa, anzi: attirano l’attenzione su fenomeni che altrimenti potrebbero passare in sordina.
L’importante sarebbe non strumentalizzarli a fini di marketing, per portare più click senza dare poi un reale approfondimento. E soprattutto, non utilizzarli come specchietto per le allodole, promettendo un cambiamento che invece poi non è altro che un nuovo nome da dare ai vecchi sistemi.
Trovare un nuovo modo di fare le cose non è mai facile o indolore, ma finché ci si impegna per portare un miglioramento, si ha la certezza di muoversi nella giusta direzione, e io sono convinta che questa lo sia.
Tu cosa ne pensi? Fammelo sapere nei commenti.